Tu sei qui
Il Cucchiaio di Vetro
“Quando ero piccolo mi innamoravo di tutto, correvo dietro ai cani; e da marzo a febbraio mio nonno vegliava sulla corrente di cavalli e di buoi”.
Non è difficile immaginarsi Fabrizio De André che scrive questi versi di “Coda di Lupo”, forse uno dei suoi brani più autobiografici, se camminate nell’aia della Cascina dell’Orto di Revignano.
Questa cascina De André la abitò da bambino e poi continuò a frequentarla per una decina d’anni anni, quando ancora non era Faber ma solo Bicio, un bambino vivace e selvatico che già allora ai libri di scuola preferiva le scorribande per i campi dietro al mezzadro “perché non c’è da andare a scuola, ti basta una parola, lassù nei verdi pascoli”.
In quella cascina persa nella campagna astigiana, suo padre, il prof. De André, aveva rifugiato la famiglia per sfuggire ai bombardamenti di Genova.
E così a Fabrizio, che già era nato sulle note del Valzer Campestre, la campagna rimase nel sangue.
Nelle lunghe giornate dell’infanzia Bicio aveva un’unica compagna di giochi, la bambina dei vicini, Nina. Erano inseparabili (il fratello di Fabrizio, Mauro passava le giornate sui libri) e loro per anni rimasero soli a dividere ogni piccola scoperta, ogni grande evento come quando lo zio disperso tornò dalla prigionia in Germania e si fece una grande festa nell’aia.
Finché all’inizio degli anni ’50 il padre cedette la cascina e Fabrizio ci rimase così male da chiedersi forse per la prima volta “tu che la vendi cosa ti compri di migliore?” e da ripromettersi di tornarci solo quando fosse in grado di ricomprarla.
La cercherà tutta la vita la campagna, tra le aspre terrazze della Liguria e nella più selvaggia Sardegna, quella Gallura in cui verrà anche rapito per quattro mesi “seduto sul letto del bosco che ormai ha il suo nome”.
Ma a Revignano, no, nessun ritorno; e pazienza se ormai il vortice di polvere ricorda più una gonna ad un ballo che la siccità dei campi, se adesso puoi andare da solo nel bosco a giocare con gli zingari: “dite a mia madre che non tornerò”.
L’uomo più curioso, meno stanco e molto più ubriaco di noi ha deciso di aspettare domani per avere nostalgia.
Sono anni di sbronze, anni di mare, di addii baciando foto e naftalina, di notti passate sulla cattiva strada a raccontare storie sbagliate. “Ma c’è amore un po’ per tutti e tutti quanti hanno un amore sulla cattiva strada”, lo hai insegnato tu, vero Fabrizio?
Oppure furono ancora le parole di “Coda di Lupo”, “con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia, ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria”?
Fatto sta che Faber decise di tornare e tre anni fa Nina, cioè Giovanna Manfieri, una donna gentile per cui De André è rimasto sempre Bicio, se lo vide capitare lì nell’aia “con l’aria di sempre, forse solo un po’ più vecchio”.
Mi racconta che la cosa che più desiderava Fabrizio era di dormire una notte nella sua stanza, in quella cascina dove tutto è rimasto identico, la scala, il portico, la fontana con le salamandre, il fiume e il bosco. Solo le persone sono invecchiate ma questo penso non fosse molto importante. “Fabrizio, tutti questi anni… Perché non ti sei mai fatto vivo?”–“Hai ragione non mi sono più fatto vedere… però non ti ho mai dimenticato e ti ho scritto una canzone”.
“Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena, un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena”.
Poi, a fine giornata, la promessa di tornare presto magari con suo figlio.
“Mi sono visto piangere in uno specchio di neve.
Mi sono visto che ridevo.
Mi sono visto di spalle che partivo.
Ti saluto dai paesi di domani, che sono visioni di anime contadine, in volo per il mondo”
E se domani imboccate strada Calunga o una qualunque altra via dei campi, pensate un attimo a un bambino che sale il cancello, ruba ciliegie e piume d’uccello, tira sassate e non ha dolori, e una donna che semina il grano e un villano che zappa la terra, e forse da qualche parte, nascosta in una cascina del Monferrato o persa in un sogno interrotto, ci sarà sempre una bambina che vola tra le corde dell’altalena.